RaYo, come produrre cultura e marketing partendo dalla memoria

Nella narrazione per superare la crisi non è solo di lockdown che bisogna parlare. Ci sono esperienze digital come quella di cui si parla in questa intervista che sono frutto di saperi condivisi e di un nuovo modo di approcciarsi all’industria culturale e al marketing territoriale. Girovagando nelle tante ricerche che per conto di CorusLab stiamo portando avanti ci siamo imbattuti in un progetto che ci è piaciuto molto, e che abbiamo deciso di approfondire. Un nome che a dispetto del suo essere poco local porta dentro di sé un amore viscerale per il territorio e per le sue radici.

RaYo è un’agenzia culturale e creativa che mira al recupero della memoria storica attraverso la creazione di un archivio digitale collettivo e itinerante di fotografie di famiglia. L’idea è dare vita ad un archivio di memorie nascoste e prendersene cura, digitalizzandole e rendendole fruibili per tutti.

RaYo scopre questo patrimonio materiale ed immateriale promuovendo attività di promozione della cultura fotografica d’archivio con la realizzazione di mostre, di prodotti editoriali e collaborazioni con artisti, storyteller e videomaker. Un progetto che nasce dall’esperienza di Alessandra Costantiniello e Vanna Carlucci, che hanno deciso di mettere insieme le proprie competenze e creare l’agenzia RaYo.

 

Mita: Mi è capitata sotto gli occhi una delle vostre foto e ci è piaciuto molto come avete affrontato il tema della fotografia e del ricordo. Come è nato il progetto Rayo?

 

Alessandra: Nasce circa un anno fa come project work del master che ho conseguito in Cultural and Heritage Management, ma lo avevo in testa da molto tempo. Poi ho pensato che Vanna, che è una poetessa e fotografa, con la sua sensibilità avrebbe sicuramente dato un valore aggiunto a questo progetto ed eccoci qui. Io ho una formazione di storica dell’arte e come curatrice qui in Puglia, nell’ambito di alcune riqualificazioni urbane, mi occupo della scrittura delle domande per i bandi di accesso ai finanziamenti, sia regionali che ministeriali. In questi contesti quello che si perde di vista è proprio una parte dedicata alle storie, ai patrimoni immateriali che sono delle città elementi di unicità. Interi quartieri, intere zone dei centri storici, o periferie, anche a Gravina, vengono rifatte e si perdono sia le storie individuali, che le collettive, ma anche intere parti del patrimonio materiale, come chiese, monumenti, palazzi storici di cui ci si dimentica valore e storia. Questa era l’urgenza primaria. La fotografia, le immagini sono un linguaggio naturale per noi, visto che io sono laureata in estetica della fotografia e Vanna si occupa di critica cinematografica. Un’altra urgenza che sentivamo era quella di narrare i fenomeni migratori che creano un vuoto nella  logica della trasmissione e consequenzialità delle storie. RaYo vuole tentare di inserirsi anche in questa necessità di raccontare sotto più aspetti il fenomeno migratorio che è vera piaga del meridione: da un lato ci sono le storie di chi ha abbandonato i luoghi e dall’altro le storie dei luoghi abbandonati: un destino comune a moltissimi paesi del sud.  É il tentativo di stabilire un contatto ed una ricerca delle proprie radici attraverso il linguaggio visivo, che per noi è un linguaggio d’elezione.

Ciccio: Quindi il progetto nasce ed è legato al territorio di Gravina?

Alessandra: Si, nella zona di Gravina ed Altamura, però noi vogliamo aprirlo perché è assolutamente scalabile.

Mita: Secondo te è possibile fare marketing e comunicazione attraverso l’arte e la cultura?

Vanna: Io credo di si. La cultura ha già una sua base abbastanza sicura, il problema è quello di veicolare le azioni ed i progetti culturali attraverso i canali ed i linguaggi giusti. Noi stiamo usando un linguaggio molto fresco e utilizzando canali social per arrivare soprattutto ai giovani, anche perché vogliamo portare il progetto fuori, per questo abbiamo aperto il progetto su Instagram, sperando di poter allargare la base di audience.

Alessandra: Anche io ne sono convinta. Per me si può e si deve comunicare con l’arte perché abbiamo una duplice lettura: da un lato quella “specialistica” degli addetti ai lavori, dall’altra la sua portata “democratica” di riuscire ad arrivare a tutti, attraverso valori e messaggi universali.

Ciccio: Proprio dalle vostre risposte mi viene in mente che si possa provare a cambiare l’approccio ed i percorsi di fruizione dell’arte, pensando anche ad un discorso di business visto che gli esempi imprenditoriali con la cultura sono molteplici all’estero e qualcuno anche al Nord Italia. Possiamo uscire anche dai circuiti di fruizione tradizionali come i musei, le mostre, ecc.

Alessandra: Ci stiamo anche provando noi! Siamo state anche a colloquio varie volte per il Progetto PIN ed il progetto è piaciuto moltissimo, ma non siamo risultate idonee per il finanziamento perché non riuscivano a vedere la sostenibilità economica del progetto. Probabilmente non è il bando adatto ad un progetto come RaYo e ci proveremo ancora, siamo solo all’inizio, è un progetto simile ha un potenziale che può prestarsi a diverse applicazioni. Ci sono tante agevolazioni e sostegni all’imprenditoria giovanile qui in Puglia e probabilmente dovremmo solo cercare uno più adatto.  Sicuramente è qualcosa su cui dobbiamo riflettere poiché un progetto simile si presta a tantissime implicazioni di vario genere. Siamo convinte che ci sia una sostenibilità, anche economica, per esempio attraverso l’educazione, ma spesso manca questa voce nei bandi che erogano finanziamenti. Per noi è importantissimo formare le nuove generazioni ad una fruizione diversa dei contenuti culturali e se non si inizia proprio dall’educazione alla visione tutto ciò resterà un’utopia. Noi invece vorremmo che questo fosse un primo passo; noi vogliamo digitalizzare tutto questo materiale, prendercene cura e prenderci cura di tutto ciò che si cela dietro queste fotografie. Oppure inventarcele, prendendo spunto da esempi di autori ben più famosi di noi, partendo da questo “Archivio – AnArchivio”, creando storie e sentieri nuovi partendo dal materiale che abbiamo raccolto, quindi non ragionare solo di creazioni di arte ma di meccanismi che rendano l’arte e la cultura sostenibile nel tempo, lavorando sui concetti di fruizione stessa, quindi mostre, prodotti editoriali, lavorare sull’educazione all’immagine e alla produzione partendo dai più piccoli. Educare all’osservare e alla consapevolezza dei nuovi mezzi, magari cercando dei percorsi di educazione ed interazione fra genitori e figli.

Vanna: Alessandra ha detto bene parlando di RAYO come AnArchivio, sottolineando la diversità dagli esempi di archivi digitali che documentano le realtà territoriali. Quello che noi stiamo cercando di fare è una nuova forma di interazione con la memoria, donando dinamicità sia alla forma sia alla sua fruizione. A volte creiamo dei percorsi secondi logiche dissociative, accoppiando alle immagine delle storie diverse oppure inventate, secondo quelle che erano i linguaggi e le intenzioni delle avanguardie storiche dei primi del ‘900, rendendo più dinamica la sedimentazione dell’immagine fotografica e cercando connessioni con altri linguaggi e altri artisti. In questo modo ogni immagine non è più qualcosa di definito ma diviene un punto di incontro e di ripartenza per altro, in questo rendiamo l’archivio qualcosa di vivo.

Mita: Come sono stati raccolti gli archivi? Avete iniziato da quelli personali?

Alessandra: Naturalmente siamo partiti da quelli personali, ma come credo ben capiate si trattava di qualcosa di limitato, proprio per questo avevamo cominciato poco prima del lockdown un’attività di porta a porta di raccolta di materiale d’archivio. Di raccolta e d’intervista, anche per creare dei podcast di accompagnamento per questo materiale. Inoltre avevamo lanciato delle campagne online, e questo è l’aspetto scalabile del progetto, chiamate “La mia foto ricordo” dove le persone raccontano un’immagine o un gruppo di immagini associati a dei ricordi o a delle idee. In questo il lockdown dobbiamo dire che ci ha aiutato dando tempo alle persone in casa di potersi di nuovo approcciare al proprio materiale che magari era in casa messo da parte.

Mita: Molto interessante questa attività da fare nella fase di lockdown, ricorda l’iniziativa che noi di Micilab abbiamo fatto attraverso Pandemica Narrazione, un racconto collettivo a cui chi voleva si iscriveva e partecipava cercando di costruire una sorta di romanzo breve. Sono attività che a mio avviso possono aiutare alla creazione di un nuovo tipo di immaginario, oppure si tratta di un orizzonte illusorio. Voi che ne pensate a questo proposito?

Alessandra:

Si è fatto un grande uso della parola “cambiamento” in tutto questo periodo. Io sono convinta che cambieranno alcuni processi pratici, alcune abitudini che a lungo andare potranno apportare nuove consapevolezze e dunque cambiamenti anche nell’immaginario. Forse si potrà sfruttare questa nuova coralità, con la certezza che i progetti partecipati si possono realizzare anche a distanza fisica.

Ciccio: Volevo fare proprio una domanda inerente al lockdown. Questa fase, oltre a tutte le difficoltà, ha dato anche l’opportunità di far vedere un tipo di vita differente proprio grazie all’uso più intensivo delle tecnologie. I dati parlano di un sensibile calo dell’inquinamento. Mi chiedo se dal mondo della comunicazione possa partire un nuovo stile di vita che magari riesca ad inglobare quelle che possono essere delle best-practices apprese in questo periodo difficile e farle diventare abitudini diffuse?

Alessandra: Credo che sia cambiata l’importanza degli strumenti ed il rapporto che abbiamo col digitale. Ora si comprende di più la necessità di questi strumenti ad un livello molto più diffuso.

Vanna: Sono d’accordo, anche se sono convinta che ci sia anche un forte bisogno di socialità e di incontro che poi sicuramente sarà presente in questa fase immediatamente successiva al lockdown.

Mita: Ultima domanda, mi piacerebbe che foste voi a raccontarci da dove nasce il nome del vostro progetto, perché è una passione comune.

Alessandra: Entrambe siamo partite dalla passione verso Man Ray e dalla sua modalità chiamata Rayogrammi, questo modo quasi di bruciare l’immagine ed il suo significato per generarne di nuovi. Ci sembrava un bel tributo e soprattutto una sorta di solco dove voler far andare il nostro percorso.

Mita Borgogno & Ciccio Ratti

MiCiLab per Corus